IL TRIBUNALE DI PISA 
 
    in composizione collegiale, in persona dei magistrati: 
        dott. Nicola Antonio Dinisi, Presidente; 
        dott. Marco Viani, giudice relatore/estensore; 
        dott. Enrico D'Alfonso, giudice, 
a scioglimento della riserva che precede, ha pronunciato la  seguente
ordinanza, osservato quanto segue. 
    Le ricorrenti, l'una cittadina statunitense e  l'altra  cittadina
italiana, in proprio e nella  dichiarata  qualita'  di  genitori  del
figlio minore, hanno  presentato  ricorso  ex  art.  95  decreto  del
Presidente della Repubblica 396/2000 esponendo che il minore era nato
a Pontedera e che l'ufficiale dello stato civile del Comune  di  Pisa
si era rifiutato di ricevere la  dichiarazione  di  nascita  espressa
congiuntamente dalla ricorrente cittadina  statunitense  quale  madre
gestazionale, e  dalla  ricorrente  cittadina  italiana  quale  madre
intenzionale, in  forza  del  consenso  alla  fecondazione  eterologa
(avvenuta in Danimarca). 
    Secondo l'Ufficiale di Stato civile, il  riconoscimento  non  era
consentito dall'art. 250 c.c., che fa riferimento a  un  genitore  di
sesso maschile e a uno di sesso femminile. 
    Le ricorrenti hanno argomentato che dovevano applicarsi gli artt.
8 e 9 della legge 40/2004 secondo cui il consenso alla  donazione  di
gamete rende genitore (ritenendo la discriminazione di genere vietata
dalla Costituzione e dalla CEDU), e  comunque  la  norma  di  diritto
internazionale  privato   italiano   che   rinvia   in   materia   di
riconoscimento alla legge personale del minore e,  in  caso  di  piu'
cittadinanze, comunque quella  piu'  favorevole  (osservando  che  in
forza della legge dello Stato del  Wisconsin  i  soggetti  che  hanno
prestato  il  consenso  alla  procreazione   medicalmente   assistita
eterologa sono genitori senza discriminazione di  genere),  dolendosi
inoltre che fosse stata negata al minore la cittadinanza  dell'Unione
europea in  violazione  del  principio  di  non  discriminazione  per
orientamento sessuale in relazione all'art. 20 TFUE. 
    In punto di fatto, premesso di coltivare da  anni  una  relazione
affettiva stabile e di aver contratto matrimonio negli Stati Uniti il
1° agosto 2014, hanno  esposto  di  aver  avviato  una  procedura  di
procreazione medicalmente assistita eterologa con  seme  di  donatore
anonimo, esprimendo entrambe consenso. 
    Hanno poi argomentato che l'omogenitorialita'  non  e'  contraria
all'ordine pubblico e che nessuna norma  stabilisce  nell'ordinamento
italiano che i genitori debbano essere necessariamente di due  generi
anagrafici  diversi,  mentre  diversi  provvedimenti   dell'autorita'
giudiziaria italiana che hanno ammesso una simile filiazione. 
    Hanno  invocato  gli  artt.  3  e  31  Cost.,   che   proscrivono
interpretazioni discriminatorie, lesive del diritto fondamentale alla
formazione della famiglia, riconosciuto e tutelato dagli artt. 2 e 31
Cost. 
    Hanno richiamato precedenti che hanno  consentito  l'adozione  in
casi particolari ex art. 44 lettera d) legge 184/1983 da parte  della
compagna della madre biologica (Trib. Min. Roma, 30 luglio 2014; App.
Roma, 23 dicembre 2015), che hanno ordinato  la  trascrizione  di  un
certificato  di  nascita  straniero  che  indicava  due  madri  quale
genitrici (App. Torino, 4 dicembre 2014) o  riconosciuto  l'efficacia
di un decreto straniero di  adozione  coparentale  (App.  Milano,  1°
dicembre 2015). 
    Hanno citato poi Cass., 11  gennaio  2013  n.  601  (secondo  cui
l'inserimento di un minore in una famiglia incentrata su  una  coppia
omosessuale non e' di per se' dannoso), e la  pronuncia  della  Corte
EDU X c.  Austria  (19  febbraio  2013,  che  ha  ritenuto  contraria
all'art. 14 della Convenzione EDU la differenza di trattamento che la
legge austriaca riservava al  partner  omosessuale,  che  non  poteva
adottare il figlio del compagno, mentre cio' sarebbe stato consentito
al partner eterosessuale). 
    Hanno argomentato che ai sensi dell'art. 8 legge 40/2004 i nati a
seguito dell'applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente
assistita hanno lo stato di figli legittimi o di  figli  riconosciuti
della coppia che ha espresso la volonta' di ricorrere  alle  tecniche
medesime e che cio' valeva  anche  per  coppie,  del  medesimo  o  di
diverso  sesso,  che   avessero   fatto   ricorso   all'estero   alla
procreazione medicalmente assistita, e che, ai sensi  del  successivo
art. 9, in caso di ricorso a procreazione medicalmente  assistita  di
tipo eterologo il coniuge o il convivente che vi hanno consentito non
puo' esercitare l'azione di disconoscimento della paternita'. 
    Hanno anche osservato che secondo la giurisprudenza  della  Corte
EDU, pur se l'accesso alla PMA eterologa non e'  un  diritto  imposto
agli Stati dalla Convenzione, pur  tuttavia  laddove  un  diritto  e'
liberamente riconosciuto e  ammesso  dallo  Stato,  questo  non  puo'
discriminare in ragione dell'orientamento sessuale. 
    Hanno invocato comunque la  garanzia  dell'interesse  del  minore
alla bigenitorialita'. 
    Dal punto di vista  del  diritto  internazionale  privato,  hanno
osservato che la legge personale della madre gestazionale  e'  quella
dello  Stato  del  Wisconsin,  quale  stato   di   ultima   residenza
(domicile), e che il figlio ha quindi  la  cittadinanza  statunitense
per nascita, e hanno richiamato l'art. 33 comma 1 legge  d.i.p.  («Lo
stato di figlio e' determinato dalla legge nazionale del figlio o, se
piu' favorevole, dalla legge dello Stato di cui uno dei  genitori  e'
cittadino, al momento della nascita»). 
    Hanno quindi esposto che  la  legge  dello  Stato  del  Wisconsin
considera genitore il coniuge che ha dato il consenso davanti  ad  un
medico alla  procreazione  medicalmente  assistita,  anche  eterologa
[2013-14  Wisconsin  Statutes,  Art.  891.40  (1)   If,   under   the
supervision of a licensed physician  and  with  the  consent  of  her
husband, a wife is inseminated artificially with semen donated  by  a
man not her husband, the husband of the mother at  the  time  of  the
conception of the child shall  be  the  natural  father  of  a  child
conceived. The husband's consent must be in writing and signed by him
and his wife. The physician shall certify their  signatures  and  the
date of the insemination, and shall file the husband's  consent  with
the  department  of  health  services,  where  it   shall   be   kept
confidential and in a sealed file except as provided in s. 46.03  (7)
(bm). However, the physician's failure to file the consent form  does
not affect the legal status of father and child  ...  (Se,  sotto  la
supervisione di un medico autorizzato e con il consenso  del  marito,
una moglie e'  sottoposta  a  inseminazione  artificiale  con  sperma
donato da un uomo che non e' il marito,  il  marito  della  madre  al
momento del concepimento del figlio  sara'  il  padre  biologico  [si
traduce in questo  modo  l'espressione  natural  father  per  evitare
equivoci con quella italiana di padre naturale] del figlio concepito.
Il consenso del  marito  deve  essere  rilasciato  per  atto  scritto
firmato da lui e dalla moglie. Il medico certifichera' le firme e  la
data  dell'inseminazione,  e  inviera'  il  consenso  del  marito  al
department of health, dove sara' mantenuto riservato in  un  archivio
segreto, salvo che per quanto previsto all'art. 46.03.  Comunque,  il
mancato invio del consenso del marito da parte del medico non inficia
lo status legale del padre  e  del  figlio...)],  precisando  che,  a
livello federale a seguito della sentenza della Corte federale  degli
Stati uniti Obergefell, ma per lo Stato del  Wisconsin  gia'  con  la
sentenza definitiva del 2014 Baskin v. Bogan, tutte le  norme  devono
essere  lette  in  senso  neutro  per  quanto  riguarda   il   genere
(gender-neutral). 
    Hanno  infine   argomentato   che,   come   la   perdita,   anche
l'acquisizione della cittadinanza  europea  ricade  nella  sfera  del
diritto   dell'Unione   e   che   quindi   le   norme   che   attuino
nell'acquisizione della cittadinanza una discriminazione,  anche  per
associazione,  motivata  dall'orientamento  sessuale  devono   essere
disapplicate. 
    Hanno quindi chiesto che, accertata l'illegittimita' del rifiuto,
il  Tribunale  ordinasse  la  rettificazione  dell'anno  di  nascita,
perche' vi fosse indicato  che  il  minore  era  nato  a  seguito  di
tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo con
consenso prestato da entrambe le ricorrenti. 
    L'Avvocatura dello Stato, per conto del Sindaco  quale  Ufficiale
del Governo, del Ministro dell'interno  e  dell'Ufficio  territoriale
del Governo, premesso che l'atto di matrimonio delle  ricorrenti  non
era  trascrivibile  in  Italia,  e  che  nel  nostro  ordinamento  le
ricorrenti non avevano lo status di  coniugi,  ha  osservato  che  il
bambino era nato in Italia, sicche' il Sindaco era chiamato a formare
un atto di nascita e non a trascriverne uno formato  all'estero,  che
non vi era alcun legame biologico tra  la  madre  intenzionale  e  il
bambino, e che la stessa chiedeva di esserne riconosciuta genitrice e
non di adottarlo. 
    Ha pertanto  richiamato  numerose  disposizioni  dell'ordinamento
italiano che presuppongono la diversita' di sesso tra i  genitori  (e
segnatamente gli artt. 231, 243-bis, 250, 269 comma 3 c.c., 5, 6,  8,
9,11  legge  40/04),  concludendo  pertanto  per   l'inapplicabilita'
diretta degli artt. 8 e 9 della legge 40/04  (osservando  che,  anche
dopo la sentenza della Corte costituzionale 162/2014, l'accesso  alla
procreazione  medicalmente   assistita   eterologa   era   consentito
solamente  in  caso  di  accertata  patologia  da  cui  dipendeva  la
sterilita' o infertilita' assoluta, fermi i requisiti soggettivi gia'
previsti e quindi anche la diversita' di sesso). 
    Ha ritenuto inconferente il richiamo dell'art. 8  CEDU,  che  non
fonda ne' un  diritto  alla  prole,  ne'  un  diritto  ad  avere  due
genitori, osservando che non vi e' alcuna discriminazione di  genere,
perche' neppure una coppia eterosessuale, che  avesse  fatto  ricorso
alla procreazione  medicalmente  assistita  eterologa  all'estero  in
violazione delle disposizioni di legge italiana, potrebbe ottenere la
formazione in Italia di  un  atto  di  nascita  in  cui  il  genitore
intenzionale  venga  indicato  come  genitore,  e  che  comunque   la
giurisprudenza della Corte EDU si era  sempre  riferita  all'adozione
mentre l'unica volta che si era occupata di divieto  di  procreazione
medicalmente assistita eterologa  (S.H.  et  al.  c.  Austria)  aveva
concluso  che  si  trattava  di   materia   controversa,   eticamente
sensibile,  nella  quale   gli   Stati   hanno   ampio   margine   di
apprezzamento, e il bilanciamento non e'  lesivo  dell'art.  8  della
Convenzione: in ogni caso, la contrarieta' con la CEDU  non  consente
la disapplicazione. Ha poi argomentato che la tutela del  minore  non
poteva condurre al superamento di un divieto di legge. 
    Quanto  ai  profili  di  diritto   internazionale   privato,   ha
argomentato che non si doveva applicare l'art.  33  legge  d.i.p.  ma
l'art. 35, trattandosi di riconoscimento, e che pertanto la capacita'
del genitore di fare  il  riconoscimento  era  regolata  dalla  legge
italiana. Ha osservato che non vi era prova che si dovesse  applicare
al figlio la legge del Wisconsin e che comunque  non  era  dimostrato
che tale legge riconoscesse effettivamente la co-genitorialita'  alla
coppia  omosessuale  che  avesse  fatto  ricorso  alla   procreazione
medicalmente assistita eterologa. Ha comunque eccepito che  una  tale
legge straniera sarebbe stata comunque contraria all'ordine  pubblico
(art. 16 legge d.i.p.) e che comunque  la  sua  applicazione  sarebbe
impedita, ai sensi dell'art. 17 legge d.i.p.,  perche'  la  normativa
italiana  aveva  carattere  di  applicazione  necessaria.  Ha  infine
osservato che il minore  non  aveva  mai  acquisito  la  cittadinanza
europea, sicche' era fuori di luogo il richiamo  alla  giurisprudenza
della Corte di giustizia in tema di perdita di tale cittadinanza.  Ha
chiesto pertanto il rigetto del ricorso. 
    Anche il pubblico ministero si e'  opposto  all'accoglimento  del
ricorso. 
    Con provvedimento dell'8 febbraio 2017 il Collegio ha nominato un
curatore speciale del minore in persona dell'avv. David Cerri che  si
e' costituito aderendo alla richiesta delle ricorrenti e  concludendo
per l'accoglimento della domanda. 
    Ad avviso del Collegio,  il  diritto  interno  presuppone  che  i
genitori abbiano sesso diverso, come si desume: 
        a) da  una  serie  di  disposizioni  del  Codice  civile  che
utilizzano la terminologia di «padre» e  «madre»,  o  di  «marito»  e
«moglie», e che comunque modellano la  nozione  di  paternita'  e  di
maternita' sul dato biologico, e segnatamente: 
          l'art. 231: «Il marito e' padre del figlio concepito o nato
durante il matrimonio»; 
          l'art. 243-bis: «L'azione di disconoscimento di  paternita'
del figlio nato nel matrimonio puo'  essere  esercitata  dal  marito,
dalla madre e dal figlio medesimo. Chi esercita l'azione e' ammesso a
provare che non sussiste rapporto di filiazione tra il figlio  er  il
presunto padre. La sola dichiarazione  della  madre  non  esclude  la
paternita'»; 
          l'art. 250 comma 1: «Il figlio nato  fuori  del  matrimonio
puo' essere riconosciuto, nei  modi  previsti  dall'art.  254,  dalla
madre e dal padre, anche  se  gia'  uniti  in  matrimonio  con  altra
persona all'epoca del concepimento. Il riconoscimento  puo'  avvenire
tanto congiuntamente quanto separatamente»; 
          l'art. 269: «La paternita' e la maternita'  possono  essere
giudizialmente dichiarate  nei  casi  in  cui  il  riconoscimento  e'
ammesso. La prova della paternita' e  della  maternita'  puo'  essere
data  con  ogni  mezzo.  La  maternita'  e'  dimostrata  provando  la
identita' di colui che si pretende essere figlio e di  colui  che  fu
partorito dalla donna, la quale  si  assume  essere  madre.  La  sola
dichiarazione della madre e la sola  esistenza  di  rapporti  tra  la
madre e il preteso padre all'epoca del concepimento non costituiscono
prova della paternita'», 
        b)  dall'art.  6  comma  1  legge  184/83:   «L'adozione   e'
consentita a coniugi uniti in matrimonio da  almeno  tre  anni»  (con
riferimento all'adozione legittimante); 
        c) dall'art. 5 della legge 40/2004:  «Fermo  restando  quanto
stabilito dall'art. 4, comma 1, possono  accedere  alle  tecniche  di
procreazione medicalmente assistita coppie di  maggiorenni  di  sesso
diverso, coniugate o  conviventi,  in  eta'  potenzialmente  fertile,
entrambi viventi». 
    Che il legislatore italiano riconosca la genitorialita'  solo  in
relazione a coppie di sesso diverso emerge in trasparenza anche dalla
considerazione che il divieto di applicare tecniche  di  procreazione
assistita a coppie dello stesso sesso e' presidiato da  una  sanzione
amministrativa di elevatissimo  importo  (art.  12,  comma  2,  legge
40/04, con riferimento all'art. 5, disposizione dichiarata  in  parte
illegittima da Corte cost., 162/14,  con  riferimento  alla  parziale
illegittimita' costituzionale del divieto di  procreazione  assistita
eterologa, ma tuttora vigente per questa ipotesi, come si legge,  fra
l'altro, nella motivazione di Cass., 30 settembre 2016 n. 19599). 
    Infine, a definitiva chiusura del sistema, deve  osservarsi  che,
ai sensi  dell'art.  32-bis  legge  d.i.p.,  introdotto  dal  decreto
legislativo 7/17, «Il matrimonio contratto  all'estero  da  cittadini
italiani  con  persona  dello  stesso  sesso  produce   gli   effetti
dell'unione civile regolata dalla legge italiana», e quindi il nostro
ordinamento non riconosce, per i cittadini italiani,  le  conseguenze
del  matrimonio  same-sex  contratto   all'estero   in   materia   di
filiazione. 
    Se e' vero che l'art. 1 comma 20 legge 76/2016 prevede  «Al  solo
fine di assicurare l'effettivita' della tutela dei diritti e il pieno
adempimento degli obblighi derivanti dall'unione civile  tra  persone
dello stesso sesso, le disposizioni che si riferiscono al  matrimonio
e le disposizioni contenenti le parole "coniuge", "coniugi" o termini
equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti  aventi  forza
di legge, nei regolamenti nonche' negli  atti  amministrativi  e  nei
contratti collettivi,  si  applicano  anche  ad  ognuna  delle  parti
dell'unione civile tra persone dello stesso sesso. La disposizione di
cui al periodo precedente non si applica alle norme del codice civile
non richiamate  espressamente  nella  presente  legge,  nonche'  alle
disposizioni di cui alla legge 4 maggio 1983,  n.  184.  Resta  fermo
quanto previsto e consentito  in  materia  di  adozione  dalle  norme
vigenti», la parziale neutralizzazione che si e' cosi'  ottenuta  non
sposta i termini del problema. Non soltanto, infatti,  la  legge  ben
distingue il matrimonio dall'unione civile,  ma  dal  rinvio  restano
esclusi, per espressa previsione normativa, in quanto non richiamate,
le disposizioni che regolano la paternita' e  la  maternita',  quelle
che  regolano   l'affinita',   quelle   che   consentono   l'adozione
legittimante. 
    La disposizione in esame, quindi,  non  fa  venire  meno,  almeno
nella materia all'esame del giudice, il carattere non  gender-neutral
del diritto italiano. 
    Anzi,  dal  fatto  che  la  legge  76/2016  non  richiama  alcuna
disposizione del codice civile in materia di paternita' e  maternita'
si  desume  che,  nella  disciplina  positiva  della  filiazione,  il
riferimento ai «coniugi», o al «padre» e alla «madre», non puo',  per
legge, essere interpretato  fino  a  ricomprendervi  anche  le  parti
dell'unione civile fra persone dello stesso sesso. 
    Il recente, notorio dibattito parlamentare  che  ha  accompagnato
l'approvazione della legge 76/2016,  relativo  alla  possibilita'  di
introdurre  nell'ordinamento  la  c.d.  stepchild  adoption,   ovvero
l'adozione  del  figlio  della  parte  con  cui  e'  stata  contratta
un'unione civile  fra  persone  dello  stesso  sesso -  possibilita',
com'e' noto, esclusa, salvo il riferimento  nell'ultimo  periodo  del
comma 20 al fatto che resti «fermo quanto previsto  e  consentito  in
materia di adozione dalle norme vigenti» che, allo stato del  diritto
vivente, va  all'adozione  in  casi  particolari -  non  consente  di
dubitare sulla volonta' del legislatore al riguardo. 
    A  tali  chiarissimi  indici  normativi  si  deve  aggiungere  il
fondamentale dato interpretativo che si evince dalla  sentenza  della
Corte costituzionale n.  138/2010,  che,  dopo  aver  sostanzialmente
condiviso  l'impostazione  dei  giudici  a  quibus  («l'istituto  del
matrimonio civile, come previsto nel vigente ordinamento italiano, si
riferisce soltanto all'unione stabile tra un uomo e una donna. Questo
dato emerge non  soltanto  dalle  norme  censurate,  ma  anche  dalla
disciplina della filiazione legittima (artt. 231 e ss. codice  civile
e, con particolare riguardo all'azione di disconoscimento, artt. 235,
244 e ss. dello stesso codice), e da altre norme,  tra  le  quali,  a
titolo di esempio, si puo'  menzionare  l'art.  5,  primo  e  secondo
comma, della legge 1° dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei  casi  di
scioglimento del matrimonio), nonche' dalla normativa in  materia  di
ordinamento dello stato  civile.  In  sostanza,  l'intera  disciplina
dell'istituto, contenuta  nel  codice  civile  e  nella  legislazione
speciale, postula la diversita' di sesso dei coniugi, nel  quadro  di
«una consolidata ed  ultramillenaria  nozione  di  matrimonio»,  come
rileva l'ordinanza del Tribunale veneziano. Nello stesso senso e'  la
dottrina, in maggioranza orientata  a  ritenere  che  l'identita'  di
sesso sia causa d'inesistenza del  matrimonio,  anche  se  una  parte
parla di invalidita'. La rara  giurisprudenza  di  legittimita',  che
(peraltro, come obiter dicta) si  e'  occupata  della  questione,  ha
considerato la diversita' di sesso dei coniugi tra i requisiti minimi
indispensabili per ravvisare l'esistenza  del  matrimonio  (Corte  di
cassazione, sentenze n. 7877 del 2000, n. 1304 del 1990 e n. 1808 del
1976)»), ha anche precisato: «Infatti, come risulta dai citati lavori
preparatori, la questione delle unioni omosessuali rimase  del  tutto
estranea al dibattito svoltosi  in  sede  di  Assemblea,  benche'  la
condizione omosessuale non fosse certo  sconosciuta.  I  costituenti,
elaborando l'art. 29 Cost., discussero di un istituto che  aveva  una
precisa conformazione ed  un'articolata  disciplina  nell'ordinamento
civile. Pertanto, in assenza di diversi riferimenti,  e'  inevitabile
concludere  che  essi  tennero  presente  la  nozione  di  matrimonio
definita dal codice civile entrato in  vigore  nel  1942,  che,  come
sopra si e' visto, stabiliva (e tuttora  stabilisce)  che  i  coniugi
dovessero essere persone di sesso diverso. In tal senso orienta anche
il secondo comma della  disposizione  che,  affermando  il  principio
dell'eguaglianza  morale  e  giuridica  dei  coniugi,  ebbe  riguardo
proprio alla posizione della  donna  cui  intendeva  attribuire  pari
dignita' e diritti nel rapporto  coniugale.  Questo  significato  del
precetto costituzionale non puo' essere superato per via ermeneutica,
perche' non si tratterebbe di una semplice rilettura del sistema o di
abbandonare una mera prassi interpretativa, bensi'  di  procedere  ad
un'interpretazione creativa. Si deve ribadire, dunque, che  la  norma
non prese in considerazione  le  unioni  omosessuali,  bensi'  intese
riferirsi  al  matrimonio  nel  significato  tradizionale  di   detto
istituto. Non e' casuale, del resto,  che  la  Carta  costituzionale,
dopo  aver  trattato  del  matrimonio,  abbia   ritenuto   necessario
occuparsi della tutela dei figli (art. 30),  assicurando  parita'  di
trattamento anche  a  quelli  nati  fuori  dal  matrimonio,  sia  pur
compatibilmente con i membri della famiglia legittima.  La  giusta  e
doverosa tutela, garantita ai figli naturali, nulla toglie al rilievo
costituzionale   attribuito   alla   famiglia   legittima   ed   alla
(potenziale)  finalita'  procreativa  del  matrimonio  che   vale   a
differenziarlo  dall'unione  omosessuale.  In  questo   quadro,   con
riferimento all'art. 3  Cost.,  la  censurata  normativa  del  codice
civile che, per  quanto  sopra  detto,  contempla  esclusivamente  il
matrimonio tra uomo e donna, non puo'  considerarsi  illegittima  sul
piano costituzionale. Cio' sia  perche'  essa  trova  fondamento  nel
citato art. 29 Cost., sia perche' la normativa medesima non da' luogo
ad una irragionevole discriminazione, in quanto le unioni omosessuali
non possono essere ritenute omogenee al matrimonio». 
    Il Collegio trae da questa pronuncia conferma del  fatto  che  il
diritto  italiano,  in  materia   di   famiglia,   non   e'   affatto
gender-neutral  e  che  una  tale  costruzione  non  e'  di  per  se'
costituzionalmente illegittima. 
    Non soltanto, svolgendo analogo ragionamento, si deve  concludere
che anche la nozione di genitori come coppia formata da  un  padre  e
una madre di sesso opposto  risponde  a  una  nozione  consolidata  e
ultramillenaria, ma nella richiamata pronuncia della Corte  e'  anche
contenuto un indice argomentativo  che  corrobora  l'interpretazione,
laddove si legge che proprio la potenziale finalita' procreativa vale
a differenziare il matrimonio dall'unione omosessuale  (e  quindi,  a
contrario, quest'ultima non e' finalizzata alla filiazione). 
    Sul piano del diritto vivente, deve anche segnalarsi che la Corte
di Cassazione, nella  fondamentale  pronuncia  che  ha  espressamente
escluso la contrarieta'  all'ordine  pubblico  dell'atto  di  nascita
straniero da cui risulti la nascita di un figlio da due madri (Cass.,
19599/2016, cit.) ha  espressamente  precisato  in  motivazione:  «Il
Ministero dell'interno ha ulteriormente obiettato  che,  riconoscendo
l'atto di nascita  di  (omissis),  si  finirebbe  per  introdurre  in
Italia, di fatto e surrettiziamente, la possibilita'  di  trascrivere
atti di nascita da persone dello stesso sesso,  nonostante  l'assenza
di  una  previsione  legislativa  che  lo  consenta   e   regoli   la
fattispecie. E' agevole replicare  che  il  giudizio  riguardante  la
compatibilita'   con   l'ordine   pubblico   secondo    il    diritto
internazionale privato - e' finalizzato non  gia'  ad  introdurre  in
Italia  direttamente  la  legge  straniera,  come  fonte  autonoma  e
innovativa  di  disciplina  della  materia,   ma   esclusivamente   a
riconoscere effetti in Italia ad uno specifico atto  o  provvedimento
straniero  relativo  ad  un  particolare   rapporto   giuridico   tra
determinate persone». 
    Neppure confligge con la conclusione  il  fatto  che  il  diritto
vivente abbia ammesso, come si e'  accennato,  l'adozione,  ai  sensi
dell'art. 44 comma 1  lettera  d)  legge  184/83,  del  figlio  della
persona dello stesso sesso con cui  si  ha  in  corso  una  relazione
sentimentale e di convivenza  (Cass.,  22  giugno  2016  n.  12962  e
successive pronunce di merito). La c.d. adozione non legittimante  e'
infatti un istituto profondamente diverso  nei  presupposti  e  negli
effetti, e la ratio della decisione, come ben illustrato dalla  Corte
di cassazione, e' quella di consentire, nel best interest del minore,
il consolidarsi di rapporti affettivi ed educativi gia' in corso. Per
giungere alla conclusione la Corte ha del resto  fatto  ricorso  alla
clausola, meno determinata e in un certo  senso  di  chiusura,  della
lettera  d)  della  richiamata   disposizione   («impossibilita'   di
affidamento preadottivo»). 
    Conclusivamente, quindi, dal punto di vista del  diritto  interno
appare allo stato escluso che genitori di un  figlio  possano  essere
due persone dello stesso sesso. 
    Non appare quindi fondata la tesi  principale  delle  ricorrenti,
secondo cui si applicherebbe anche al loro caso la  disciplina  posta
dagli artt. 8 e 9 della legge  40/04  (art.  8:  «I  nati  a  seguito
dell'applicazione  delle  tecniche   di   procreazione   medicalmente
assistita hanno lo stato di figli nati  nel  matrimonio  o  di  figli
riconosciuti della coppia che ha espresso la  volonta'  di  ricorrere
alle tecniche medesime ai sensi dell'art. 6»;  art.  9:  «Qualora  si
ricorra a tecniche di procreazione  medicalmente  assistita  di  tipo
eterologo "in violazione del divieto  di  cui  all'art.  4,  comma  3
[limitatamente a queste parole la Corte costituzionale ha  dichiarato
l'illegittimita' costituzionale della disposizione]" il coniuge o  il
convivente il cui consenso e' ricavabile da atti concludenti non puo'
esercitare l'azione di  disconoscimento  della  paternita'  nei  casi
previsti dall'art. 235, primo comma,  numeri  1)  e  2),  del  codice
civile, ne' l'impugnazione di cui all'art. 263 dello  stesso  codice.
2. La madre del nato  a  seguito  dell'applicazione  di  tecniche  di
procreazione medicalmente assistita non puo' dichiarare  la  volonta'
di  non  essere  nominata,  ai  sensi  dell'art.  30,  comma  1,  del
regolamento di cui al  decreto  del  Presidente  della  Repubblica  3
novembre 2000, n. 396. 3. In caso di applicazione di tecniche di tipo
eterologo in violazione del divieto di cui all'art. 4,  comma  3,  il
donatore  di  gameti  non  acquisisce  alcuna   relazione   giuridica
parentale con il nato e non puo' far valere nei suoi confronti  alcun
diritto ne' essere titolare di obblighi»). 
    Va  rammentato  che,  nel  sistema  originario  della  legge,  le
tecniche eterologhe erano rigidamente vietate. 
    L'art. 8 si occupava  quindi  della  sola  fecondazione  omologa,
stabilendo che, in caso di consenso  alla  procreazione  medicalmente
assistita ai sensi dell'art. 6, i nati  avevano  lo  stato  di  figli
legittimi (ora: nati nel matrimonio), se la  coppia  era  sposata,  o
altrimenti di figli riconosciuti. 
    Per le coppie sposate la filiazione risultava automaticamente (in
conformita', del resto, alla presunzione posta dall'art. 231 c.c.). 
    Per le coppie  non  sposate  era  generalmente  ritenuto  che  il
consenso  ritualmente  espresso  tenesse  luogo  del  riconoscimento:
sebbene   risulti   espressa   anche   l'opinione   contraria,   tale
interpretazione, oltre che aderente  alla  lettera  della  legge  che
collega lo status al consenso, e' l'unica coerente con  la  ratio  di
tutela del nascituro sottesa alla disposizione, dato  che,  se  fosse
necessario un autonomo riconoscimento, che dovrebbe intervenire  dopo
la nascita,  e  quindi  a  distanza  di  tempo  dall'espressione  del
consenso, sarebbe possibile operare  una  resipiscenza  semplicemente
negando  il   riconoscimento   e   rendendo   quindi   obbligata   la
dichiarazione giudiziale di paternita' (che, trattandosi  di  tecnica
omologa, sarebbe astrattamente possibile). 
    Se lo status di figli legittimi  (ora:  nati  nel  matrimonio)  o
riconosciuti era attribuito dalla legge in conseguenza del  consenso,
anche se la legge non lo esplicitava,  e'  agevole  ricavare  in  via
interpretativa che, nei casi regolati dall'art. 8, non e' ammessa una
successiva azione di disconoscimento di paternita' o di  impugnazione
del riconoscimento per difetto di veridicita'. Se si ammette  che  il
figlio  nato  da  tecniche  di  procreazione  medicalmente  assistita
consentita da una coppia non sposata ha per legge lo status di figlio
riconosciuto per il solo fatto della nascita e del consenso espresso,
senza necessita' di un autonomo  riconoscimento,  l'impugnazione  per
difetto di veridicita' non sarebbe del resto comunque possibile,  per
inesistenza dell'oggetto. 
    L'art. 9 comma 1, invece, si  occupava  della  sola  fecondazione
eterologa, come si e' detto vietata,  stabilendo  che,  qualora  alla
tecnica vietata si fosse egualmente  dato  corso,  il  coniuge  o  il
convivente che vi avevano dato consenso, anche per atto  concludente,
non potevano esercitare l'azione di disconoscimento della  paternita'
o di impugnazione del riconoscimento per difetto di  veridicita'.  Il
successivo comma 2,  applicabile  anche  alla  fecondazione  omologa,
disponeva che la madre del nato in esito a tecniche  di  procreazione
medicalmente assistita non potesse esercitare il proprio  diritto  di
non essere nominata. 
    La disposizione dell'art. 9  comma  1  era  quindi  profondamente
diversa da quella dell'art. 8:  non  attribuiva  direttamente  alcuno
status al  figlio,  ma  si  limitava  a  precludere  la  possibilita'
giuridica di contestare la paternita', non consentendo, a tutela  del
nascituro, la resipiscenza rispetto al consenso gia' espresso. 
    Se  la  coppia  era  sposata,  il  figlio  nato  dalle   tecniche
eterologhe era figlio del marito in  forza  della  presunzione  posta
dall'art. 231 c.c. 
    Se invece la coppia non era  sposata,  e'  giocoforza  concludere
che, in  questo  caso,  occorresse  un  espresso  riconoscimento  del
genitore, se solo si considera che (a) la  disposizione  che  prevede
l'equipollenza  del  consenso  al   riconoscimento   e'   sicuramente
eccezionale e insuscettibile di  interpretazione  analogica,  (b)  il
consenso poteva essere espresso anche per atto concludente, ma in tal
caso non poteva essere esibito all'Ufficiale dello Stato civile,  (c)
anche se fosse stato esibito un consenso  redatto  per  iscritto,  si
sarebbe trattato comunque di un consenso invalido perche' contrario a
norma imperativa, presidiata anche da sanzioni amministrative. 
    La Corte costituzionale, con la sentenza  162/14,  ha  dichiarato
illegittimi gli artt. 1 e 4 della legge 40/04 nella parte in cui  non
ammettono  il  ricorso  a  tecniche  eterologhe  qualora  sia   stata
diagnosticata  una  patologia  che  sia   causa   di   sterilita'   o
infertilita'  assolute  ed  irreversibili.  Ha  pertanto   dichiarato
l'illegittimita' anche dell'art. 9 comma 1 limitatamente alle  parole
«in violazione del divieto di cui all'art. 4 comma 3». 
    A seguito di tale modifica, tuttavia, il divieto  del  ricorso  a
tecniche eterologhe e' venuto meno soltanto in caso  di  diagnosi  di
una patologia che sia causa di sterilita' o infertilita'  assolute  e
irreversibili. 
    L'art. 8, che disciplinava, nell'impianto originario della legge,
la sola procreazione medicalmente assistita omologa, perche'  era  la
sola consentita, si  deve  quindi  oggi  interpretare  nel  caso  che
disciplini anche la  procreazione  medicalmente  assistita  eterologa
compiuta legittimamente, perche' vi e' stata  diagnosi  di  patologia
che causa sterilita' o  infertilita'  assolute  e  irreversibili.  La
disposizione  fa  infatti  rinvio  al  consenso  espresso  ai   sensi
dell'art. 6, che a  sua  volta  menziona  come  soggetti  destinatari
dell'informazione quelli previsti dall'art. 5, che a sua volta  tiene
fermo l'art. 4 comma 1,  e  rende  cosi'  evidente  che  gli  effetti
giuridici  previsti  dall'art.  8  presuppongono   una   procreazione
medicalmente  assistita  compiuta   in   conformita',   oggettiva   e
soggettiva, alle norme della legge. 
    Diversamente da quanto argomenta parte ricorrente, non si tratta,
quindi, di una disposizione che regola soltanto la forma del consenso
espresso in Italia, ma di una disposizione che, attraverso i  plurimi
rinvii  che  si  sono   sopra   indicati,   prevede   (tra   l'altro)
l'equipollenza al solo riconoscimento del solo consenso  espresso  in
presenza dei presupposti soggettivi e oggettivi posti dalla legge. 
    Con tali premesse, il Collegio non ritiene che si possa  dubitare
della legittimita' costituzionale dell'art. 8 della legge 40/04 nella
parte  in  cui  non  attribuisce  di  diritto  al  bambino  nato   da
procreazione medicalmente assistita lo status di figlio  riconosciuto
del coniuge o del convivente che vi abbia consentito. 
    In particolare, alla luce delle indicazioni fornite  dalla  Corte
costituzionale nella sentenza 138/10, sembra di doversi escludere  un
contrasto con l'art. 29, Cost., mentre l'art. 30,  Cost.,  tutela  la
filiazione, ma non  consente  certo  di  ritenere  costituzionalmente
obbligato il riconoscimento di qualsiasi rapporto di  filiazione  non
biologica astrattamente ipotizzabile. 
    Analogamente, l'art. 2 tutela  i  diritti  dell'uomo  all'interno
delle formazioni sociali, ma non se ne  puo'  dedurre  la  necessaria
parificazione  di  formazioni  sociali  di  tipo   nuovo   a   quelle
preesistenti. 
    Le ricorrenti sembrano ritenere che un'interpretazione  dell'art.
8 della legge  40/04  nel  caso  di  escludere  la  filiazione  della
ricorrente madre intenzionale contrasti con gli artt. 8  e  14  della
CEDU. 
    Per vero, la Corte EDU ha ritenuto  che  non  contrasti  con  gli
artt.  8  e  14  della  Convenzione  consentire   il   ricorso   alla
procreazione medicalmente assistita alle  sole  coppie  eterosessuali
infertili (Gas e Dubois c. Francia), mentre in generale, quando si e'
occupata dei diritti delle coppie dello stesso senso,  ha  dimostrato
cautela su  materie  che  coinvolgono  temi  eticamente  sensibili  o
diritti di terzi. 
    E' pur vero che la Corte ha affermato nella pronuncia X et al. c.
Austria che contrasta con gli artt.  8  e  14  della  Convenzione  la
normativa che non consente l'adozione del figlio del convivente dello
stesso sesso, se l'adozione sarebbe consentita al convivente di sesso
diverso. 
    Tuttavia, il principio di parita' di accesso che si trae da  tale
pronuncia non sembra al Collegio potersi applicare al caso di specie. 
    Da un lato, come si e' detto, secondo l'interpretazione che si e'
sopra  data  dell'art.  8,  il   consenso   che   tiene   luogo   del
riconoscimento e' quello che risponde, anche dal punto di  vista  del
contenuto, e in forza dei rinvii a catena che si sono  esaminati,  ai
requisiti posti dagli artt. 4 comma 1 e  5  della  legge.  Da  questo
punto di vista, quindi, il sesso del  convivente  non  e'  dirimente,
perche', se anche  la  coppia  fosse  formata  da  persone  di  sesso
diverso, non ci si troverebbe di fronte a infertilita'  o  sterilita'
irreversibili e patologiche, e quindi si sarebbe comunque al di fuori
dello schema legale. 
    Dall'altro lato, in quanto la  legge  italiana  non  consente  la
procreazione medicalmente assistita con tecnica eterologa se non alle
coppie eterosessuali che in conseguenza di una patologia  si  trovino
in condizione di infertilita' o sterilita' irreversibili, il  ricorso
a una tale tecnica al di fuori di tale condizione, sia per le  coppie
omosessuali, sia per le coppie eterosessuali, non costituisce oggetto
di un diritto garantito dall'ordinamento, ma, come osserva la  difesa
erariale, conseguenza di una violazione di legge,  in  rapporto  alla
quale non  sembra  potersi  porre  alcuna  questione  di  parita'  di
accesso. 
    Ora, ai sensi dell'art. 449 c.c. «I registri dello  stato  civile
sono tenuti in ogni comune in conformita' delle norme contenute nella
legge sull'ordinamento dello stato civile». 
    La legge sull'ordinamento dello stato civile, come  e'  noto,  e'
stata abrogata nell'ambito di un intervento  di  delegificazione;  il
riferimento deve leggersi, oggi,  al  decreto  del  Presidente  della
Repubblica 396/00, e segnatamente all'art. 29 secondo cui  «Nell'atto
di nascita sono indicati il luogo, l'anno, il mese, il giorno e l'ora
della nascita, le generalita',  la  cittadinanza,  la  residenza  dei
genitori del figlio nato nel matrimonio nonche' di quelli che rendono
la  dichiarazione  di  riconoscimento  del  figlio  nato  fuori   del
matrimonio e di quelli  che  hanno  espresso  con  atto  pubblico  il
proprio consenso ad essere nominati, il sesso del bambino e  il  nome
che gli viene dato ai sensi dell'art. 35». Si consideri, inoltre, che
uno dei genitori e' la «puerpera» (arg.  ex  art.  30),  laddove  «il
riconoscimento di un figlio nascituro puo' essere fatto dal padre.  o
contestualmente a quello della gestante o dopo il  riconoscimento  di
quest'ultima e la prestazione del suo consenso,  ai  sensi  dell'art.
250, terzo comma, del codice civile» (art. 44). 
    Dato che, come si e'  detto,  il  diritto  interno  ammette  come
genitori solamente persone di sesso diverso, l'atto di  nascita  deve
quindi indicare un padre e una madre. 
    La conclusione non e' affatto contrastata dall'esistenza di  noti
precedenti giurisprudenziali (fra  cui  Cass.,  19599/16,  cit.)  che
hanno consentito la trascrizione di atti di nascita stranieri in  cui
due persone dello stesso sesso venivano indicate come genitori. 
    Come si e' detto, la Corte di  cassazione  ha  precisato  (Cass.,
19599/16,  cit.)  che  in  tal  caso  si  tratta  esclusivamente   di
riconoscere effetti in Italia ad uno specifico atto  o  provvedimento
straniero  relativo  ad  un  particolare   rapporto   giuridico   tra
determinate persone. Dovendosi dare ingresso  in  Italia  a  un  atto
straniero,  il  giudice  e'  chiamato  soltanto  a  valutare  se  sia
compatibile con  l'ordine  pubblico,  e  non  con  l'ordine  pubblico
interno, ma con l'ordine pubblico internazionale. 
    Cass.,  19599/16,  cit.,  sul  punto,  ha  affermato  i  seguenti
principi di diritto: «il giudice italiano,  chiamato  a  valutare  la
compatibilita'  con  l'ordine  pubblico  dell'atto  di  stato  civile
straniero (nella specie, dell'atto di  nascita),  i  cui  effetti  si
chiede di riconoscere in Italia, a norma della legge n. 218 del 1995,
artt. 16, 64 e 65, e decreto del Presidente della Repubblica  n.  396
del 2000, art. 18, deve  verificare  non  gia'  se  l'atto  straniero
applichi una disciplina della materia conforme o difforme rispetto ad
una o piu' norme interne (seppure imperative o inderogabili),  ma  se
esso contrasti con le esigenze di  tutela  dei  diritti  fondamentali
dell'uomo,  desumibili  dalla  Carta  costituzionale,  dai   Trattati
fondativi e dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea,
nonche'  dalla  Convenzione  Europea  dei  diritti  dell'uomo...   il
riconoscimento e la trascrizione nei registri dello stato  civile  in
Italia di un atto straniero, validamente formato in Spagna, nel quale
risulti la nascita di un figlio da due donne - in particolare, da una
donna italiana (indicata come madre B) che ha donato l'ovulo  ad  una
donna  spagnola  (indicata  come  madre  A)   che   l'ha   partorito,
nell'ambito di  un  progetto  genitoriale  realizzato  dalla  coppia,
coniugata in quel paese - non contrastano con l'ordine  pubblico  per
il solo fatto che il legislatore nazionale non  preveda  o  vieti  il
verificarsi  di  una  simile  fattispecie  sul  territorio  italiano,
dovendosi avere riguardo al principio,  di  rilevanza  costituzionale
primaria, dell'interesse superiore del minore, che si  sostanzia  nel
suo diritto alla continuita' dello  status  filiationis,  validamente
acquisito all'estero (nella specie, in un altro  paese  della  UE)...
l'atto di nascita straniero (valido, nella specie, sulla base di  una
legge in vigore in un altro paese della VE) da cui risulti la nascita
di un figlio da due madri (per avere l'una donato l'ovulo  e  l'altra
partorito), non contrasta, di per se', con l'ordine pubblico  per  il
fatto che la tecnica  procreativa  utilizzata  non  sia  riconosciuta
nell'ordinamento italiano dalla  legge  n.  40  del  2004,  la  quale
rappresenta una delle possibili modalita' di  attuazione  del  potere
regolatorio attribuito al legislatore ordinario su una  materia,  pur
eticamente sensibile e di rilevanza costituzionale,  sulla  quale  le
scelte legislative non sono costituzionalmente obbligate...  in  tema
di PMA, la fattispecie  nella  quale  una  donna  doni  l'ovulo  alla
propria partner (con la quale, nella specie, e' coniugata in  Spagna)
la quale partorisca, utilizzando un  gamete  maschile  donato  da  un
terzo ignoto, non costituisce un'ipotesi di maternita' surrogata o di
surrogazione di maternita' ma un'ipotesi di genitorialita' realizzata
all'intento della coppia, assimilabile alla  fecondazione  eterologa,
dalla quale si distingue per essere il feto legato biologicamente  ad
entrambe le donne registrate come madri in Spagna (per  averlo  l'una
partorito e per avere l'altra trasmesso il patrimonio genetico)... la
regola secondo cui e' madre colei che ha partorito, a norma dell'art.
269 c.c., comma 3, non costituisce un principio fondamentale di rango
costituzionale, sicche' e' riconoscibile in Italia l'atto di  nascita
straniero dal quale risulti che  un  bambino,  nato  da  un  progetto
genitoriale di coppia, e' figlio di due madri (una che l'ha partorito
e l'altra che ha donato l'ovulo), non essendo opponibile un principio
di ordine pubblico desumibile dalla suddetta regola». 
    Sostanzialmente conforme e'  Cass.,  15  giugno  2017  n.  14878,
intervenuta in corso di causa. 
    Alla luce di tale importante pronuncia della Corte di cassazione,
che il Collegio condivide e che fa propria, e di  altre  pronunce  di
merito che hanno affermato principi similari (App. Torino, 29 ottobre
2014, confermata dalla pronuncia di  legittimita'  sopra  richiamata;
App. Trento, 23 febbraio 2017, a proposito  di  un  atto  di  nascita
straniero in cui erano indicati due padri) si deve concludere che  la
contrarieta'  all'ordine  pubblico  della  normativa  straniera   che
consente di stabilire una filiazione con due  genitori  dello  stesso
sesso non sussiste. 
    Non e' invece pertinente il richiamo, nelle  difese  erariali,  a
Cass., 11 novembre 2014 n. 24001, che riguarda un caso di  maternita'
surrogata. 
    La parte erariale ha sostenuto  che  il  principio  enucleato  da
Cass., 19599/16, cit., non si potrebbe applicare al  caso  di  specie
perche', nel caso esaminato dalla  Suprema  Corte,  una  delle  madri
aveva donato l'ovulo e l'altra aveva  partorito,  e  quindi  entrambe
avevano un legame non meramente intenzionale con il figlio. 
    La questione appare comunque, agli odierni fini, irrilevante: non
si  discute,  infatti,   della   contrarieta'   all'ordine   pubblico
internazionale della  genitorialita'  intenzionale;  l'argomentazione
della Corte di cassazione fa effettivamente leva sul  contributo  che
entrambe le  madri  hanno  dato  alla  nascita  del  figlio,  ma  per
escludere  la  riconducibilita'  della  fattispecie  a  quella  della
maternita' surrogata; quel che oggi rileva e' che, secondo  la  Corte
di Cassazione, seguita sul punto da svariati giudici  di  merito,  di
per se' non contrasta con l'ordine pubblico internazionale  la  legge
straniera che consente a due persone del  medesimo  sesso  di  essere
genitori di un figlio  (in  caso  contrario,  la  Suprema  Corte  non
avrebbe dovuto neppure procedere nell'analisi). 
    Giova osservare  che  Cass.,  14878/17,  cit.,  ha  affermato  il
medesimo principio in una fattispecie in  cui,  a  quanto  si  evince
dalla narrativa, vi erano una madre gestazionale e  biologica  e  una
madre intenzionale che non aveva alcun legame genetico con il minore. 
    D'altra parte, si  e'  detto  che  App.  Trento  ha  recentemente
escluso che contrasti con l'ordine pubblico internazionale l'atto  di
nascita straniero che indica come genitori due  padri,  ed  e'  ovvio
che, in una simile fattispecie,  la  cooperazione  di  entrambi  alla
nascita non e' neppure ipotizzabile. 
    Tuttavia, la  questione  che  si  pone  oggi  all'attenzione  del
Collegio e' molto diversa. 
    Mentre in tutti i precedenti noti si discuteva della trascrizione
di un atto di nascita formato all'estero, in cui erano  indicati  due
genitori del medesimo sesso, nel presente caso  si  discute,  per  la
prima volta a quanto consta, della possibilita' di formare in  Italia
un atto di nascita in cui siano indicati due  genitori  del  medesimo
sesso. 
    A opinione del Collegio, la formazione dell'atto  di  nascita  e'
regolata da norme che non disciplinano direttamente  i  rapporti  fra
privati, ma disciplinano l'attivita' della pubblica  amministrazione,
e si debbono ritenere di applicazione necessaria. 
    Come e' noto, ai sensi dell'art. 17 legge d.i.p., «e' fatta salva
la prevalenza sulle disposizioni che  seguono  delle  norme  italiane
che, in considerazione del loro oggetto e  del  loro  scopo,  debbono
essere applicate nonostante il richiamo alla legge straniera». 
    Mancando un criterio preciso per individuare, salvo che nei  casi
in cui la disposizione preveda  espressamente  di  volersi  applicare
anche ai rapporti che  presentano  carattere  di  estraneita',  quali
siano le norme di applicazione necessaria, gli  interpreti  fanno  di
solito riferimento all'oggetto e allo scopo della disposizione. 
    In particolare, la Corte di cassazione ha affermato, in una delle
rare occasioni in cui ha dato un'esplicita definizione dell'istituto,
che  si  tratta  delle  norme  «(definite  sovente  lois  de  police)
spazialmente condizionate e funzionalmente autolimitate -  e  percio'
solo destinate  ad  applicarsi  nonostante  il  richiamo  alla  legge
straniera -, quali,  tra  le  altre,  le  leggi  fiscali,  valutarie,
giuslavoristiche, ambientali» (Cass.,  ss.  uu.,  5  luglio  2011  n.
14650, in motiv.). 
    Ora,  le  leggi  che  disciplinano  l'attivita'  della   pubblica
amministrazione sembrano per loro natura spazialmente condizionate  e
funzionalmente autolimitate, in quanto  regolano  gli  atti  compiuti
dall'organo dello  Stato-apparato,  che  non  puo'  applicare,  nella
propria azione amministrativa, disposizioni straniere. 
    D'altra  parte,  anche  se  gli  interpreti  piu'  recenti  hanno
apparentemente svalutato un tradizionale criterio che le  riconduceva
al diritto pubblico, e' pur vero che, in senso stretto, le  norme  di
applicazione  necessaria  sono  pur   sempre   norme   privatistiche.
Applicando una tale nozione, il problema non si porrebbe  neppure,  e
sarebbe ontologicamente escluso  che  un  organo  dello  Stato  possa
formare un atto in conformita' a una legge straniera. 
    Conforta il Collegio in questo  convincimento  il  fatto  che  la
stessa Corte di cassazione, nella gia' piu' volte richiamata sentenza
19599/16, abbia affermato,  senza  neppure  svolgere  un  particolare
approfondimento  sul  punto,  come  se  considerasse   la   questione
scontata:  «Nel  presente  giudizio,  infatti,  non  si   tratta   di
verificare la conformita' alla legge italiana della  legge  spagnola,
in base alla quale e' stato formato all'estero l'atto di  nascita  di
un bambino da  due  madri,  essendo  evidente  la  difformita'  delle
rispettive discipline: la legge italiana  non  consente  alle  nostre
autorita' di formare un atto di nascita del genere». 
    La legge italiana, dunque, secondo il  giudice  di  legittimita',
non consente alle nostre autorita' di formare un atto di  nascita  in
cui siano indicati due genitori dello stesso sesso. 
    Non giova in senso contrario osservare che e' possibile (e  anzi,
dopo la sentenza della Corte di Giustizia 2 ottobre 2003 in C-148/02,
Garcia Avello, doveroso) formare un atto di  nascita  attribuendo  al
neonato il  cognome  che  gli  spetta  sulla  base  della  sua  legge
nazionale, e non sulla base della legge interna, anche  nei  casi  di
doppia cittadinanza. 
    Sembra appena il caso di  osservare  che  i  due  casi  non  sono
comparabili: nell'uno si tratta di formare un atto di nascita in  cui
viene  attribuito  un  cognome  invece  che  un  altro,   ma   quindi
sostanzialmente rispondente alla  fattispecie  dell'atto  di  nascita
come regolato dalla legge italiana, nell'altro si tratta  di  formare
un atto di nascita in cui,  anziche'  un  padre  e  una  madre,  sono
indicati due padri o due madri, e  quindi  divergente  rispetto  alla
fattispecie dell'atto di nascita come regolato dalla legge  italiana;
o, se si  preferisce,  nell'un  caso  la  legge  straniera  viene  in
considerazione per il contenuto  dell'atto,  nell'altro  verrebbe  in
considerazione per la sua struttura. 
    Analogamente, non contraddice l'argomentazione il  fatto  che,  a
quanto  affermano  le  ricorrenti,  le   istruzioni   del   Ministero
dell'interno prevedano che, quando si forma l'atto di nascita  di  un
bambino nato da genitori stranieri, si recepiscano le indicazioni dei
dichiaranti quanto allo status di figlio legittimo o nato  fuori  del
matrimonio, visto che, anche in questo caso, l'atto  di  nascita  che
viene  cosi'  formato  e'  coerente   con   la   struttura   prevista
dall'ordinamento italiano per gli atti di nascita. 
    E, piu' in radice, per quanto  sopra  si  e'  detto,  non  appare
possibile affermare che la legge italiana consenta  di  stabilire  la
filiazione qualora alla procreazione medicalmente assistita eterologa
faccia  ricorso  una  coppia  same-sex,  almeno   per   il   genitore
intenzionale. 
    Cio' posto, resta da valutare la possibilita' che, come sostenuto
dalle ricorrenti,  il  giudice  possa  disapplicare  la  disposizione
interna. 
    Ad avviso del Collegio, questa possibilita' non sussiste. 
    In  materia   di   cittadinanza   europea,   e'   ancora   valido
l'insegnamento della Corte di Giustizia (7 luglio 1992, in  C-369/90,
Micheletti) secondo cui «La determinazione dei modi di acquisto e  di
perdita  della  cittadinanza  rientra,  in  conformita'  al   diritto
internazionale, nella competenza di ciascuno Stato membro, competenza
che deve essere esercitata nel rispetto del diritto comunitario.  Non
spetta, invece, alla legislazione di uno Stato  membro  limitare  gli
effetti  dell'attribuzione  della  cittadinanza  di  un  altro  Stato
membro, pretendendo un requisito ulteriore per il  riconoscimento  di
tale cittadinanza al fine dell'esercizio delle liberta'  fondamentali
previste dal Trattato». 
    Se  e'  vero  che  la  sentenza  Micheletti  interviene  in   una
fattispecie in cui la cittadinanza di un altro stato gia' sussisteva,
in linea assolutamente teorica  il  medesimo  principio  si  dovrebbe
applicare anche al caso in cui i requisiti ulteriori siano posti  per
l'acquisto della cittadinanza di uno  Stato  membro  e  quindi  della
cittadinanza europea. 
    Nel caso di specie, tuttavia, la legge italiana  non  pone  alcun
requisito ulteriore rispetto alla  filiazione  per  l'acquisto  della
cittadinanza europea. 
    Si discute, infatti, dello stabilimento della filiazione, che  e'
un presupposto dell'acquisto della cittadinanza, e  non  direttamente
della cittadinanza, che, come  e'  pacifico,  laddove  la  maternita'
della ricorrente genitrice intenzionale fosse  riconosciuta,  sarebbe
acquisita senz'altro dal figlio. 
    L'argomento, cioe', prova troppo. 
    Dato che la cittadinanza si acquista anche per matrimonio, se  ne
dovrebbe concludere che, prima dell'introduzione dell'art. 1 comma 20
legge 76/2016 in forza del quale anche l'unione  civile  fra  persone
dello stesso sesso consente  l'acquisizione  della  cittadinanza,  il
divieto di matrimonio fra persone dello stesso sesso fosse  contrario
al  diritto  europeo  perche'  non  consentiva  l'acquisizione  della
cittadinanza europea al cittadino straniero che intendesse  celebrare
matrimonio con un cittadino italiano dello stesso sesso; ma una  tale
conclusione  appare  del  tutto  inaccettabile  e  comunque  si  deve
escludere   anche   alla   luce   della   richiamata   giurisprudenza
costituzionale. 
    Cio'  detto,  deve  osservarsi  che  il   minore   e'   cittadino
statunitense: la cittadinanza statunitense non e' contestata,  ma  la
si puo' comunque stabilire sulla base della section 301 (g)  dell'INA
secondo cui «The following shall be nationals  and  citizens  of  the
United States at birth: (...) a person born outside the  geographical
limits of the United States and its outlying possessions  of  parents
one of whom is an alien, and the other a citizen of the United States
who, prior to the birth of such person, was physically present in the
United States or its outlying possessions for  a  period  or  periods
totaling not less than five years, at least two of which  were  after
attaining the age of fourteen years» [«I seguenti soggetti avranno la
cittadinanza e la nazionalita' degli Stati Uniti alla nascita:  (...)
una persona nata fuori dai confini  degli  Stati  Uniti  e  dei  suoi
possedimenti esterni da genitori di cui  uno  sia  uno  straniero,  e
l'altro un cittadino degli Stati Uniti che, prima  della  nascita  di
tale persona, era stato fisicamente presente negli Stati Uniti o  nei
suoi possedimenti esterni per un periodo, o piu' periodi,  ammontanti
in totale a non meno di cinque anni, di  cui  almeno  due  dopo  aver
raggiunto  l'eta'  di   quattordici   anni»;   il   prosieguo   della
disposizione presenta condizioni ulteriori che non sono di  interesse
in causa]. 
    In particolare, la madre gestazionale e'  nata  in  Illinois,  ha
contratto matrimonio all'eta' di 41 anni con la madre intenzionale in
Illinois, e si deve presumere, quindi, fino a prova  contraria,  che,
fra le due date, sia rimasta sul territorio degli Stati Uniti. 
    Assodato, quindi, che il minore e' cittadino statunitense, non e'
contestato che l'ultimo domicile della madre gestazionale si trovasse
nello stato del Wisconsin e anzi che la stessa conservi  il  domicile
in tale Stato avendo provato l'iscrizione alle liste  elettorali  del
Wisconsin. 
    Come e' noto, in common law il domicile si mantiene in  un  luogo
anche se ci si trasferisce a  vivere  altrove,  anche  per  un  tempo
lungo, purche' in quel luogo si conservi l'intenzione di fare ritorno
[«Bouvier defines domicile as that place where a man  has  his  true,
fixed, and permanent home and principal establishment, and  to  which
he has the intention of returning whenever he  is  absent  therefrom»
(«Bouvier definisce il domicile come quel luogo dove un  uomo  ha  la
sua  dimora  autentica,  fissa  e  permanente  e  il  suo  principale
stabilimento, e a cui ha l'intenzione di ritornare  ogniqualvolta  ne
sia assente»): Stine v. Moore, 213 F.2d 446 (5th Cir. 1954); si  veda
anche, per quanto possa essere di interesse, Mas v. Perry,  489  F.2d
1396 (5th Cir.), secondo la quale la donna sposata  con  una  persona
straniera non perde il proprio domicile originario]. 
    D'altra parte, il figlio  minore  ha  il  domicile  dei  genitori
[«Domicile is established for adults by physical presence in a  place
combined with intent to remain there. Holyfield, 490 US  at  48,  109
SCt at 1608, 104 LEd2d 29 (citing Texas v.  Florida,  306  U.S.  398,
424, 59 SCt 563, 576, 83 Led 817 (1939). A minor takes  the  domicile
of his parents. Id.» (Il domicile e' stabilito per gli adulti in base
alla presenza fisica  in  un  luogo  combinata  con  l'intenzione  di
rimanervi. Holyfield, 490 US at 48, 109 SCt at  1608,  104  LEd2d  29
(citando Texas v. Florida, 306 U.S. 398, 424, 59 SCt 563, 576, 83 LEd
817 (1939)). Un minore prende il domicile dei suoi genitori. Id.): In
Re the Matter of J.D.M.C., 2007 SD 97]. 
    Ai  sensi  dell'art.  18  comma  1  legge   d.i.p.,   in   quanto
l'ordinamento degli Stati Uniti  d'America  e'  plurilegislativo,  si
deve far  riferimento,  com'e'  noto,  alla  legge  dello  Stato  del
domicile, che costituisce la residenza legale. 
    Ora, ai sensi dell'art. 33 legge d.i.p. «1. Lo stato di figlio e'
determinato dalla legge nazionale del figlio o, se  piu'  favorevole,
dalla legge dello Stato di cui uno  dei  genitori  e'  cittadino,  al
momento della nascita. 2. La legge individuata ai sensi del  comma  1
regola  i  presupposti  e  gli  effetti  dell'accertamento  e   della
contestazione  dello  stato  di  figlio;  qualora  la   legge   cosi'
individuata non permetta  l'accertamento  o  la  contestazione  dello
stato di figlio si applica la legge italiana. 3. Lo stato di  figlio,
acquisito in base alla legge nazionale di uno dei genitori, non  puo'
essere contestato che alla stregua di tale legge; se tale  legge  non
consente la contestazione si applica la legge italiana.  4.  Sono  di
applicazione necessaria le norme del diritto italiano che  sanciscono
l'unicita' dello stato di figlio»,  mentre,  ai  sensi  dell'art.  35
legge d.i.p., «1. Le condizioni per il riconoscimento del figlio sono
regolate dalla legge nazionale del figlio al momento della nascita, o
se piu' favorevole, dalla legge nazionale  del  soggetto  che  fa  il
riconoscimento, nel momento in cui questo avviene; se tali leggi  non
prevedono il riconoscimento  si  applica  la  legge  italiana  2.  La
capacita' del genitore di fare il riconoscimento  e'  regolata  dalla
sua legge nazionale. 3. La forma del riconoscimento e' regolata dalla
legge dello Stato in cui esso e' fatto o da quella che ne  disciplina
la sostanza». 
    Ora, come si e' detto, la legge del Wisconsin, e  in  particolare
la section 891.40 (rubricato artificial  insemination,  inseminazione
artificiale) dei Wisconsin  Statutes  che  si  e'  sopra  trascritto,
prevede che il marito, tale al tempo del  concepimento,  della  donna
che  ha  fatto  ricorso  alla  procreazione  medicalmente   assistita
eterologa, se ha espresso consenso per iscritto, sia [equiparato  al]
padre biologico. 
    Occorre  precisare  che  la  section  891.40  non  e'  una  norma
processuale: anche  se  il  chapter  891  e'  rubricato  presumptions
(presunzioni), e la sezione in cui e' inserito Provisions  Common  to
Actions and Proceedings  in  All  Courts  (disposizioni  comuni  alle
azioni e ai procedimenti davanti a  tutti  i  tribunali),  si  tratta
evidentemente di una disposizione di contenuto sostanziale, che fonda
la paternita' giuridica istituendo una  fictio  iuris  di  paternita'
biologica. 
    Ora, nel diritto statunitense, e in particolare nel  diritto  del
Wisconsin, le disposizioni debbono essere gender-neutral e la  parola
husband (marito) deve quindi essere interpretata nel senso di  spouse
(coniuge). 
    In particolare, si vedano i precedenti Wolf  v.  Walker  («It  is
DECLARED that art. XIII, § 13 of the Wisconsin Constitution  violates
plaintiffs' fundamental right to  marry  and  their  right  to  equal
protection of laws under  the  Fourteenth  Amendment  to  the  United
States Constitution. Any Wisconsin  statutory  provisions,  including
those in Wisconsin Statutes chapter 765, that limit  marriages  to  a
"husband" and a "wife," are unconstitutional as applied  to  same-sex
couples»: «si dichiara che l'art. XIII, § 13 della  Costituzione  del
Wisconsin viola il diritto fondamentale degli attori a sposarsi e  il
loro  diritto  alla   pari   protezione   giuridica,   tutelato   dal
Quattordicesimo Emendamento alla Costituzione degli Stati Uniti. Ogni
disposizione legislativa del Wisconsin, incluse  quelle  del  chapter
765 dei Wisconsin Statutes, che limiti il matrimonio a un "marito"  e
a una "moglie", e'  incostituzionale  se  applicata  a  coppie  dello
stesso sesso») e, nello specifico, Torres v. Seemeyer, 207  F.  Supp.
3d 905 - Dist. Court, WD Wisconsin 2016 («It  is  DECLARED  that  the
Wisconsin Department of Health Services's practice before May 2, 2016
of enforcing Wis. Stat § 891.40(1) against female married couples but
not different-sex couples  is  unconstitutional.  The  department  is
directed to construe Wis. Stat. § 891.40(1) in gender-neutral  terms.
In particular, the word "husband" in § 891.40(1) should be  construed
to mean "spouse."»: «si dichiara che la prassi del  Dipartimento  dei
Servizi Sanitari del Wisconsin, prima del 2 maggio 2016, di applicare
il § 891.40(1) degli Wis. Stat. in danno di coppie di  donne  sposate
ma non di sesso differente e' incostituzionale. Al dipartimento viene
ordinato di interpretare il § 891.40(1) degli Wis. Stat.  in  termini
neutri quanto al genere. In particolare, la  parola  "marito"  nel  §
891.40(1) dovrebbe essere interpretata nel senso di "coniuge"»). 
    A livello federale, deve farsi dapprima  richiamo  del  notissimo
precedente Obergefell v. Hodges, con cui la Corte Suprema degli Stati
Uniti ha riconosciuto il diritto al  matrimonio  delle  coppie  dello
stesso sesso. 
    Infine, la Corte Suprema  ha  deciso,  nella  sentenza  Pavan  v.
Smith, 582 U.S. - (2017): «...when an opposite-sex couple conceives a
child by way of anonymous sperm donation - just  as  the  petitioners
did here - state law requires the placement  of  the  birth  mother's
husband on the child's birth certificate.. And that is so even though
(as  the  State  concedes)  the  husband  "is  definitively  not  the
biological father" in those circumstances... Arkansas has thus chosen
to make its birth certificates more than a mere marker of  biological
relationships: the State uses  those  certificates  to  give  married
parents a  form  of  legal  recognition  that  is  not  available  to
unmarried  parents.  Having  made  that  choice,  Arkansas  may  not,
consistent  with  Obergefell,  deny  married  same-sex  couples  that
recognition» («...quando una coppia di sesso  diverso  concepisce  un
figlio attraverso una donazione anonima di seme -  come  hanno  fatto
gli odierni ricorrenti - il diritto dello Stato prevede l'inserimento
del marito della madre  biologica  sul  certificato  di  nascita  del
figlio... e cio' avviene anche se (come lo Stato riconosce) il marito
in tali casi "sicuramente non e' il padre biologico"... L'Arkansas ha
cosi' scelto di fare dei suoi certificati di nascita qualcosa di piu'
che semplici indicatori di relazioni biologiche: lo Stato usa  questi
certificati per dare ai genitori sposati una forma di  riconoscimento
legale che non e' disponibile per  i  genitori  non  sposati.  Avendo
fatto questa scelta, l'Arkansas non puo', in coerenza con la sentenza
Obergefell, negare  questo  riconoscimento  a  coppie  sposate  dello
stesso sesso»). 
    La parte pubblica aveva inizialmente sostenuto che  le  norme  di
conflitto consentirebbero al giudice italiano di applicare  la  legge
straniera, ma non anche la giurisprudenza straniera:  ma  l'eccezione
e' manifestamente infondata. 
    E' principio fondamentale del diritto internazionale privato  che
le norme  di  rinvio  conducono  all'ordinamento  straniero  nel  suo
complesso, e quindi anche all'interpretazione che ne danno i  giudici
di quell'ordinamento: anzi, secondo una  nota  formula,  il  giudice,
quando applica il diritto straniero, deve considerare se stesso  come
se avesse sede in  quel  paese.  La  distinzione,  poi,  perde  quasi
completamente il proprio significato quando l'ordinamento  richiamato
sia di common law, come e' quello statunitense. 
    Non ha poi fondamento la tesi della parte erariale secondo cui le
sentenze straniere non  potrebbero  essere  utilizzate  dal  giudice,
perche' non sono state sottoposte allo scrutinio di cui  all'art.  65
legge d.i.p.:  a  prescindere  da  ogni  altra  considerazione,  tale
scrutinio riguarda infatti la possibilita' di portare a esecuzione la
sentenza straniera quanto al suo comando concreto, vale a dire la sua
concreta incidenza sui rapporti  giuridici  controversi,  ma  non  ha
nulla  a  che  vedere  con  la  possibilita'  di  tener  conto  della
giurisprudenza  straniera  come  elemento  costitutivo  del   diritto
vivente straniero. 
    Secondo la legge del Wisconsin, quindi,  la  madre  intenzionale,
che,  per  l'ordinamento  statunitense,  e'  sposata  con  la   madre
gestazionale, e  ha  dato  per  iscritto  il  proprio  consenso  alla
procreazione medicalmente assistita, e' genitore del minore. 
    Non ha pregio l'osservazione della parte  pubblica  secondo  cui,
per l'ordinamento italiano,  le  ricorrenti  non  sono  sposate:  nel
momento in  cui  il  giudice  deve  valutare  se,  per  l'ordinamento
statunitense, la ricorrente di cittadinanza  italiana  e'  madre  del
minore, deve considerare che, per  tale  ordinamento,  le  ricorrenti
sono coniugi. 
    Per quanto si e' sopra detto, alla luce del diritto vivente (e in
particolare  di  Cass.,  19599/16,  cit.),  si  deve  escludere   che
l'applicazione della legge del  Wisconsin  sia  contraria  all'ordine
pubblico internazionale. 
    Appare il caso di precisare che il  giudizio  sulla  contrarieta'
all'ordine pubblico della legge straniera non e'  diverso  a  seconda
che si tratti di recepire  un  atto  straniero,  o  di  fare  diretta
applicazione della legge straniera. La distinzione  introdotta  dalla
Corte di cassazione nel  rimarcare  che  le  autorita'  italiane  non
potrebbero formare un siffatto atto di nascita rileva  infatti  sotto
un altro profilo, come si illustrera' oltre. 
    Cio' significa che, da un lato, se,  ai  sensi  della  legge  del
Wisconsin, puo' stabilirsi alla nascita la filiazione tra il minore e
la madre  intenzionale,  questo  stabilimento  e'  rilevante  per  il
diritto italiano; dall'altro, la madre intenzionale puo' invocare  la
legge del Wisconsin, quale legge nazionale del figlio, per operare il
riconoscimento. 
    Sembra il caso di rilevare, anche  in  relazione  alle  eccezioni
della parte erariale, che (a) il riferimento alle  norme  di  diritto
internazionale privato e' pertinente, perche' la fattispecie presenta
caratteri  di  estraneita',  in  quanto  il   figlio   e'   cittadino
statunitense, come lo e' il genitore  che  e'  menzionato  come  tale
nell'atto; (b)  la  nazionalita'  italiana  dell'altro  genitore  non
preclude l'efficacia del riconoscimento, perche' l'art.  35  comma  2
legge  d.i.p.,  nel  prevedere  che  la  capacita'  del  genitore  di
effettuare il riconoscimento e' regolata dalla sua  legge  nazionale,
si riferisce alla capacita' di agire, mentre il comma 1 del  medesimo
art. 35 rinvia, per le  condizioni  del  riconoscimento,  alla  legge
nazionale del figlio; la conclusione appare  del  resto  ovvia  anche
alla luce del secondo periodo dell'art. 20 legge d.i.p.  secondo  cui
le condizioni speciali di capacita' sono disciplinate dalla legge del
rapporto. 
    Non puo' poi condividersi  la  posizione  della  parte  erariale,
laddove sembra ritenere che, in conseguenza della mancata  formazione
dell'atto di nascita, la  ricorrente  di  cittadinanza  italiana  non
possa considerarsi madre del  minore.  In  effetti,  come  si  desume
dall'art. 236, c.c., l'atto di nascita da' la prova della filiazione,
ma non la fa sorgere: la filiazione, sussistendone i  presupposti  di
legge - della legge applicabile -  sorge  per  il  solo  fatto  della
nascita. 
    E tuttavia, pur dovendosi ritenere che  la  ricorrente  genitrice
intenzionale sia madre del minore  secondo  la  legge  del  Wisconsin
applicabile alla fattispecie, la legge italiana,  come  si  e'  sopra
illustrato, per usare  le  parole  della  Corte  di  cassazione,  non
consente alle nostre autorita' di formare un atto di nascita  in  cui
un figlio risulti avere due genitori dello stesso sesso. 
    A  questo  punto,   il   Collegio   dubita   della   legittimita'
costituzionale della norma che si desume dagli artt. 449 c.c.,  dagli
artt. 29 comma 2 e 44 comma 1 decreto del Presidente della Repubblica
396/00, dall'art. 250 c.c., e dagli artt. 5 e 8  della  legge  40/04,
nella parte in cui non consente di  formare  in  Italia  un  atto  di
nascita in cui vengano riconosciute come genitori di un cittadino  di
nazionalita' straniera due persone  dello  stesso  sesso,  quando  la
filiazione sia stabilita sulla base della legge applicabile  in  base
all'art. 33 legge 218/95, per contrasto: 
        1) con gli artt. 2 e 3, Cost., perche' in modo  irragionevole
limita il diritto di  persone  che,  in  base  alla  legge  straniera
applicabile, sono legate da un rapporto  di  genitorialità-filiazione
di vedere  riconosciuta  pienamente  in  Italia  la  loro  formazione
sociale; 
        2) con l'art. 3, Cost., per irragionevole discriminazione con
la situazione in cui il cittadino di nazionalita' straniera abbia due
genitori intenzionali di sesso diverso, nel qual caso  la  formazione
dell'atto di nascita sarebbe possibile, con cio'  ponendo  in  essere
una discriminazione basata sul sesso; 
        3) con gli artt. 3 e 24, Cost., perche' irragionevolmente non
consente  al  figlio  di  ottenere  la  prova   precostituita   della
filiazione che sussiste in base alla legge straniera applicabile,  in
assenza di motivi di ordine pubblico internazionale che  ostino  alla
sua applicazione in Italia; 
        4) con gli artt. 3 e 30, Cost., dal quale ultimo si desume il
diritto del figlio di ricevere mantenimento e istruzione dai genitori
(che tali siano  in  base  alla  legge  applicabile  al  rapporto  di
filiazione), e quindi, prima di tutto, anche secondo un  criterio  di
ragionevolezza, di vedere riconosciuta formalmente la filiazione; 
        5) con l'art. 117, Cost., per contrasto con gli artt. 3  («In
tutte  le  decisioni  relative  ai  fanciulli,  di  competenza  delle
istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali,
delle  autorita'   amministrative   o   degli   organi   legislativi,
l'interesse superiore del fanciullo deve  essere  una  considerazione
preminente.  2.  Gli  Stati  parti  si  impegnano  ad  assicurare  al
fanciullo la protezione e le cure necessarie  al  suo  benessere,  in
considerazione dei diritti e dei doveri dei suoi genitori,  dei  suoi
tutori o di altre persone che hanno la sua responsabilita' legale,  e
a  tal  fine  essi  adottano  tutti  i  provvedimenti  legislativi  e
amministrativi appropriati. 3. Gli Stati parti vigilano affinche'  il
funzionamento delle istituzioni, servizi  e  istituti  che  hanno  la
responsabilita' dei fanciulli e che provvedono alla  loro  protezione
sia conforme alle  norme  stabilite  dalle  Autorita'  competenti  in
particolare nell'ambito della sicurezza e della salute e  per  quanto
riguarda il  numero  e  la  competenza  del  loro  personale  nonche'
l'esistenza  di  un  adeguato  controllo»)  e  7  («Il  fanciullo  e'
registrato immediatamente al momento della sua nascita e da allora ha
diritto a un nome, ad acquisire una cittadinanza e, nella misura  del
possibile, a conoscere i suoi genitori e a essere allevato  da  essi.
2. Gli Stati parti vigilano affinche' questi diritti siano attuati in
conformita' con la loro legislazione nazionale e con gli obblighi che
sono imposti  loro  dagli  strumenti  internazionali  applicabili  in
materia, in particolare nei casi in cui se cio' non fosse  fatto,  il
fanciullo verrebbe a trovarsi apolide») della Convenzione di New York
del 20 novembre 1989, ratificata con  legge  176/91,  in  quanto  non
consente  di   garantire   l'interesse   superiore   del   fanciullo,
imponendogli   di   non   vedere   formalmente    riconosciuta    una
genitorialita' che sussiste in base alla legge straniera applicabile,
e ponendo ostacoli alla realizzazione della sua aspirazione a  vivere
con due genitori; 
        6) con l'art. 117, Cost., per contrasto con  l'art.  7  della
Convenzione di New York del 20 novembre 1989,  ratificata  con  legge
176/91, in quanto non consente di vedere riconosciuta  immediatamente
alla nascita la sua  filiazione  che  sussiste  in  base  alla  legge
straniera applicabile. 
    Giova premettere che il Collegio e' consapevole del fatto che  il
decreto  del   Presidente   della   Repubblica   396/00   ha   natura
regolamentare, e quindi di per se' non  sarebbe  assoggettabile  alla
valutazione della Corte costituzionale. 
    Il  Collegio  osserva  tuttavia  da  un   lato   che   la   Corte
costituzionale con sentenza 286/2016 ha  ritenuto  ammissibile  e  ha
accolto la questione di  legittimita'  costituzionale  di  una  norma
derivata in via interpretativa da una congerie di  disposizioni,  fra
le quali gli artt. 33 e 34 decreto del  Presidente  della  Repubblica
396/00 (si trattava,  allora,  della  norma  che  non  consentiva  ai
coniugi di trasmettere ai figli, di comune accordo, al momento  della
nascita, anche il cognome della madre),  dall'altro  che,  in  quanto
l'art. 449 c.c., nel prevedere che  i  registri  dello  stato  civile
siano  tenuti  in  conformita'  alle  norme  contenute  nella   legge
sull'ordinamento dello stato civile, e quindi ora al regolamento  per
la revisione e la semplificazione dell'ordinamento dello stato civile
portato dal suddetto decreto del Presidente della Repubblica  396/00,
in  tal  modo  vincolando  con  norma  primaria  l'amministrazione  a
conformarsi alle previsioni regolamentari, e soprattutto in quanto il
dubbio di illegittimita' che il Collegio ravvisa non e' di  immediato
contrasto del regolamento con la Costituzione, ma di contrasto con la
Costituzione  di  una  norma  immanente  nell'ordinamento  a  livello
primario e al cui rispetto  il  regolamento,  attraverso  l'art.  449
c.c., vincola la formazione degli atti di nascita, la  questione  non
possa circoscriversi alla sola legittimita'  del  regolamento  e  non
possa quindi risolversi con la sua disapplicazione. 
    La  questione  e'  rilevante,   perche'   il   suo   accoglimento
comporterebbe l'accoglimento del ricorso,  che,  in  caso  contrario,
dovrebbe essere rigettato. 
    Il   Collegio   non   ritiene   che   sia    possibile    fornire
un'interpretazione diversa delle norme,  e  supporre  quindi  che  il
concetto di «genitori» possa essere  letto,  sul  piano  del  diritto
interno, in termini neutrali, e non in termini di padre e  madre  nel
significato comune delle parole, per le considerazioni  che  si  sono
sopra  svolte,  e  in  particolare  per  l'analogia  concettuale  fra
l'istituto della filiazione e quello del matrimonio (relativamente al
quale, come si e' detto, la  Corte  costituzionale  ha  ritenuto  che
l'ordinamento recepisse la  nozione  tradizionale  e  millenaria  che
presuppone la diversita' di sesso), per i chiarissimi indici testuali
che si traggono dalla legge 40/04 e dalla  stessa  legge  76/17  (che
hanno escluso la possibilita' di consentire alle  coppie  omosessuali
la genitorialita' attraverso la procreazione medicalmente assistita o
l'adozione legittimante), e per l'autorevole insegnamento della Corte
di cassazione che, come si e' detto, ha escluso, sia pure obiter,  la
possibilita' per le autorita' italiane di formare un atto di  nascita
nel  quale  due  persone  dello  stesso  sesso  siano  indicate  come
genitori. 
    La  questione  appare  inoltre  al  Collegio  non  manifestamente
infondata. 
    In ordine al primo punto, sulla scorta di  Corte  cost.,  138/10,
cit., anche se si  vuole  escludere  che  la  tutela  della  famiglia
fondata sulla coppia omosessuale possa ricondursi all'art. 29, Cost.,
sembra evidente che costituisca una formazione sociale  che,  secondo
il  diritto  vivente,  non  e'  contraria   con   l'ordine   pubblico
internazionale, e che e' meritevole di riconoscimento e di tutela. 
    A maggior ragione, quindi, appare meritevole di riconoscimento  e
di tutela  il  rapporto  di  filiazione,  sussistente  per  la  legge
straniera, tra due membri di un siffatto nucleo familiare,  ancorche'
privi di legami genetici. 
    L'impossibilita' di formare un atto di nascita in cui si dia atto
di  un  tale  rapporto  di  filiazione  degrada  invece  il  rapporto
familiare a una condizione di mero fatto e non consente  di  offrirle
di per se stessa riconoscimento e tutela (ad esempio,  costringerebbe
il genitore intenzionale che e' genitore dalla nascita per  la  legge
applicabile a chiedere in Italia l'adozione in casi particolari,  che
tuttavia ha un effetto giuridico minore). 
    E' pur vero che, come si e' detto, ai  sensi  dell'art.  236  del
codice civile, l'atto di nascita da' prova della filiazione, e non la
fa sorgere; e  tuttavia  l'impossibilita'  di  ottenere  un  atto  di
nascita ostacola fortemente il riconoscimento giuridico del  rapporto
familiare. 
    L'ostacolo appare ancora maggiore laddove si  consideri  che,  in
assenza di un atto di nascita  che  ne  dia  atto,  il  minore  e  il
genitore  intenzionale  si  potrebbero   trovare   concretamente   in
difficolta'  nel  far  valere  la  filiazione  anche  nell'ambito  di
ordinamenti che accettano la genitorialita' omosessuale. 
    In tal modo, quindi, la norma sembra comprimere i  diritti  della
formazione sociale senza che possa rinvenirsi un  ragionevole  motivo
al riguardo, se solo si considera che, se  l'atto  di  nascita  fosse
stato formato all'estero, lo si sarebbe potuto trascrivere in  Italia
e dare giuridico rilievo alla filiazione. 
    In particolare - e la considerazione si svolge con riferimento  a
questo  primo  motivo,  ma  potrebbe  essere   ripetuta   anche   con
riferimento ai motivi successivi - il  mancato  riconoscimento  della
genitorialita' della madre intenzionale comporterebbe una lunga serie
di inaccettabili limitazioni. 
    Esemplificativamente, il  minore  non  potrebbe  far  valere  nel
territorio della Repubblica, nei confronti di una persona di  cui  e'
figlio per la sua legge nazionale, cui le norme di conflitto italiane
fanno rinvio, e che non contrasta con l'ordine pubblico,  il  proprio
diritto  al  mantenimento,  alla  cura,  al  sostegno   materiale   e
spirituale, all'istruzione e all'educazione,  a  una  vita  familiare
comune; eventuali conflitti fra  i  genitori  non  potrebbero  essere
risolti da un giudice; in caso di rottura della  coppia  il  genitore
intenzionale potrebbe essere  escluso  dalla  frequentazione  con  il
minore. 
    In ordine al secondo punto, e' evidente  che  l'atto  di  nascita
potrebbe essere formato senza questioni, e quindi  la  genitorialita'
intenzionale  immediatamente  riconosciuta,  se   alla   procreazione
medicalmente assistita avesse fatto ricorso, all'estero,  una  coppia
di sesso diverso, se la filiazione fosse stabilita in base alla legge
applicabile. 
    Poiche' l'unica distinzione che non consente la formazione di  un
atto di nascita che dia atto della filiazione sussistente secondo  la
legge applicabile e' data dal sesso della coppia genitoriale,  sembra
sussistere una discriminazione basata sul sesso. 
    In  ordine  al  terzo  punto,  e'  stato  affermato  dalla  Corte
costituzionale: «E' ben vero che l'esclusione o la limitazione  della
disponibilita' di un mezzo probatorio e in  particolare  del  ricorso
alla   prova   per   testi   sono   state   dalla   Corte    ritenute
costituzionalmente  legittime,  se  giustificate  dalla  esigenza  di
"salvaguardia di altri diritti o altri interessi giudicati  degni  di
protezione in base a criteri di reciproco  coordinamento"»;  in  caso
contrario, ne resta violato l'art. 24 della Costituzione, limitandosi
ingiustificatamente il diritto alla  prova,  che  costituisce  nucleo
essenziale del diritto di azione e  di  difesa  (C.  Cost.,  248/74).
Analoga conclusione e' stata raggiunta da C. Cost., 146/87 e da altre
pronunce. 
    Dato che la funzione primaria dell'atto di nascita e'  quella  di
dare prova (precostituita e privilegiata) della filiazione, e che, in
sua assenza, la prova della filiazione (sussistente secondo la  legge
applicabile) puo' essere particolarmente difficoltosa, e dato che non
si ravvisano esigenze di salvaguardia di altri  diritti  o  interessi
degni di protezione, la limitazione sembra ingiustificata. 
    E'  vero  che,  nella  presente  fattispecie,  non   si   discute
dell'efficacia  probatoria  dell'atto  di  nascita,  ma   della   sua
formazione; tuttavia, escludere la possibilita' di formare l'atto  di
nascita impedisce anche il suo futuro utilizzo come prova. 
    Nel dare applicazione alla norma che non consente di formare atti
di nascita in cui sono indicati genitori dello stesso  sesso,  sembra
al Collegio di potere, e  dovere,  dubitare  della  sua  legittimita'
anche sotto questi profili solo  apparentemente  eventuali  o  meglio
potenziali. 
    In ordine al quarto punto, l'impossibilita' di  far  constare  la
filiazione,  che  pure  sussiste  secondo  la  sua  legge  nazionale,
preclude al minore di  far  valere  il  proprio  diritto  a  ricevere
mantenimento  e  istruzione   dal   genitore;   tale   diritto   deve
necessariamente comprendere, come presupposto, e secondo un  criterio
di ragionevolezza, il diritto a veder accertata la filiazione. 
    Anche in questo caso, nella presente fattispecie, non si  discute
del mantenimento del minore; ma, nel dare applicazione alla norma che
non consente di formare atti di nascita in cui sono indicati genitori
dello stesso sesso, sembra al Collegio di potere, e dovere,  dubitare
della sua legittimita' nei medesimi sensi di cui si e' detto al punto
che precede. 
    In ordine al quinto e al sesto punto, l'impossibilita' di formare
un atto di nascita che faccia  constare  la  maternita'  intenzionale
sembra  al  Collegio  violare  le   richiamate   disposizioni   della
Convenzione di New York, che impongono di riconoscere alla nascita la
genitorialita' che sussista secondo  la  legge  applicabile,  di  non
porre ostacoli alla sua aspirazione di vivere con i genitori. 
    In effetti, la mancata formazione dell'atto di nascita,  come  si
e' gia' osservato, comporterebbe in via immediata la  degradazione  a
livello di mero fatto del rapporto fra il  minore  e  una  delle  sue
madri, con cio' ostacolando in  modo  evidente  il  suo  benessere  e
l'esplicazione della bigenitorialita'. 
    La Convenzione fa infatti riferimento a «genitori» al  plurale  e
ad  «entrambi  i  genitori»  (art.  18);  e  che  il   diritto   alla
bigenitorialita' sia uno  dei  principi  portanti  della  Convenziohe
stessa, e cardine di ogni valutazione in termini di miglior interesse
del minore, e' opinione generalizzata degli interpreti, mentre sembra
soltanto una petizione di principio affermare che la Convenzione  non
affermi che sia interesse del minore avere due genitori dello  stesso
sesso. 
    Sembra poi al Collegio riduttiva l'opinione della parte  erariale
secondo cui l'art. 7 non sarebbe violato per il fatto che  l'atto  di
nascita e' stato comunque redatto:  in  una  lettura  non  atomistica
della disposizione, che comprende il diritto a essere  immediatamente
registrato e, nei limiti del possibile, conoscere  i  suoi  genitori,
comporta anche il diritto a non veder disconosciuta la filiazione che
gli attribuisce la sua legge nazionale senza contrasto  con  l'ordine
pubblico costituzionale. 
    Appare  poi  non  convincente  l'osservazione  secondo   cui   la
Convenzione  non  comporterebbe  la  necessita'  per  uno  Stato   di
riconoscere la genitorialita' prevista dalla legge di cui  il  minore
e'  cittadino,  visto  che  la   filiazione   deve   ritenersi   gia'
riconosciuta attraverso il rinvio compiuto dal diritto internazionale
privato italiano e  della  non  contrarieta'  della  legge  straniera
all'ordine pubblico internazionale, mentre, per i motivi gia' esposti
quando si e' illustrata  la  non  manifesta  infondatezza  del  primo
dubbio di legittimita' costituzionale, non convince neppure  la  tesi
secondo  cui  il  mancato   riconoscimento   della   filiazione   non
impedirebbe al  genitore  intenzionale  di  accudire  e  allevare  il
minore. 
    Per  tali  motivi  il  Collegio  ritiene  di  dover  procedere  a
sollevare questione di legittimita' costituzionale, nei sensi di  cui
sopra.